venerdì 5 ottobre 2018

Il Cerchio Dell'Anima

Ho distrutto e ricomposto me stesso tante volte,
d'esser giunto ad un'era in cui non temo più la morte.
É per ciò che posso concedermi tutto questo,
poiché sento il mio esaurirsi lungo il suo muoversi perennemente in ritardo.
É così la vita dunque,
scorre lenta e inesorabile,
eppur si muove sempre nel trasmettermi qualcosa.

Io ch'ero abituato a trovarmi tra i soli che sceglievano d'esser soli,
resto qui tra i soli che si riducono ad esser soli soltanto,
abbandonato al tempo in cui nessuno sceglie d'esser scelto
scorgo anime cui l'agognata sorte lascia segni in pasto alla morte.
Qui questa si appresta a divenir fine ultima e inoppugnabile.

Fu così che partimmo quel giorno, per raggiungere luoghi consoni alla più innata purezza.
Ci ritrovammo quel giorno, perduti nelle lande in cui l'apatia di una calma piatta regna armonica in tutta la sua interezza.
Così di striscio cercammo tra le sinuose curvature un senso che ci rendesse via d'uscita,
così di slancio muovemmo il corpo, scivolando prima che la luce andasse via sbiadita.
Nel giallo dei più fruttuosi raccolti rispecchiammo la nostra anima imbianchita.
Nel grigio dei più impetuosi risvolti ritrovammo la nostra lacrima restituita.

Chi ha le chiavi dello spirito conosce il tempo, il mondo, le risposte,
ma ad un'esistenza vana e triste tende comunque ad averle riproposte.
L'esistenza terrena è fatta del frutto di tutte quelle parole
che rendono immobile pure il passo futile dell'amore.

Preso in cerca del segreto di quell'antica giovinezza,
come l'alchimista stolto
m'appresto a cogliere avido il segreto dell'oro dalla pietra grezza
e di questo, e soltanto di questo, riesco a infonderne invano la grandezza.

Sono il martire silenzioso dell'esistenza.
La mia impresa segue l'ombra,
la mia ascesa la pendenza.

Nasce l'animo dell'uomo per edificare ciò che ad egli spetta ad ogni passo.
Ed ogni anima pia ben comprende quanto il fardello tenda per il collasso.

Non siete voi amanti di me,
siete voi amanti di un principio,
mai siete stati voi amanti di me.

É per questo dunque,
che l'alchimia non è cosa esoterica, l'alchimia non riguarda la pietra.
L'alchimia riguarda la vita.




sabato 20 maggio 2017

Arimane: A Glass of Spirits

Il Diavolo veste in alto, ma regna sempre in basso,
suo è il compito, suo l'universo.
È questo il fondamento.

Ciò che è in alto è in alto, ciò che è in basso è in basso.
Seppur di regola di questo doppio si discernono i propri sensi,
essi si intrecciano indenni verso un po' di gratitudine;
di ciò che il vento non posa provocazione,
spira esso ligio di un'eterna corrosione.

D'essa, il disciogliersi dei liquami più insidiosi,
un calice di torbida fatalità.
Tanto a lungo traggono inganno dal loro stesso inganno, tanto a morte sono traditi dalla loro stessa morte:
essi cedono alla vita non manifesta.
Spenta è la luce per poter scrutare ancor più in basso;
è bene separare lo spesso dal sottile, così da non perdersi tra le ombre tacite dell'inferire.

Così si apprende dall'Ode Regia, che purché le Rose abbiano un senso,
debbano esser fatte di puro incenso: certo, vero e verissimo.

Non v'è certezza che metter pace tra le rose,
scorgervi le punte, svelandole sulla croce;
che l'aculeo si inabissi, non è fatto di ritegno,
che l'acume si cicatrizzi, non è di vitale fioritura.

Egli si dice perso quando si è fatto scuro il tempo,
sì che l'accendersi indiviso fa ritorno al proprio viso;
così si rivede nell'eco di un bambino:
è una vendemmia ormai matura,
fatta delle brume
di una più fragile fioritura.

"il diavolo sconfitto"

sabato 13 febbraio 2016

Il Manifesto contro la Scienza - Cap. 3: Perchè la Scienza non Serve

Giunti dunque al tracollo inevitabile del tempo e dello spazio, si deduce che tregua non è concessa da ciò che immune si svolge nel suo sentiero immutabile ed inoltre congiunto a se stesso quando s'inoltra nell'unico atto del concedersi uno scambio.
Si è intenti a parlare di un qualcosa che non vede riscontro alcuno in ciò che egli, il mesto Uomo di Scienza, s'addice a predicare, uno svolgersi costante di pulsioni e fluttuazioni vibranti che non concedono onore, tanto meno onere, neanche al più avverso incanto proteso ad incantare coloro che s'atteggino a mirarne, od oltremodo carpirne, il segreto più celeste.
L'ossequio, la riverenza, lo scambio perpetuo fra i contendenti si scorge inteso in un'ipotesi insondabile, altresì ben solida per coloro che, eroici, ed un po inconsistenti, s'apprestano a scorgervi segni, od ineffabili apparenze, impiastrati di vedute che giusto un po' consentono quel buffo tono d'ebbrezza che poi s'addice alla loro vista.
Che eppure tale ebbrezza sia d'indubbio pregio nella contesa con tale pedanteria è dato dalla sconcezza e dalla cialtroneria, di ciò che l'indomito Uomo, che giochi a crear l'iddio, s'appresta a proferire ed invero profetizzare, stando tutto impettito nel proprio vestitino quale esile burattino che sempre posto a legame vive sotto le redini di una regola più asfissiante.
Seppur tal ebbrezza s'accenna appena ai fuochi, il gesto dell'immane ominide si spegne sotto più ardenti roghi, confesso, reo, lui, del proprio appello alla povertà d'intenti ed alle più riduttive congetture su di un peso che non s'attiene mai a farsi carico, di cui egli non è di sicuro il messere proteso verso l'atto eroico del render conto a tale fame, pesantezza, incombenza, così risoluta da perdersi nel suo vile atto gelido del classificarne gli attrezzi in base al peso e non più al puro e sincero utilizzo ch'essi s'offrano d'improntare.
Inizia dunque la vicissitudine dell'angheria delle vie della logica, si protrae dunque la vigliaccheria, fino alla piena oppressione di ciò che ne detiene il giogo: sopruso e la più scevra sopraffazione delle vie di un cogito che del più intriso ne detiene il mezzo, e metà soltanto dunque, e che si appella con ognuna delle proprie forze poiché si oppone alla stregua dell'Immondo, nei mezzi che gli siano pur concessi.
La burla, il vezzeggio, l'ironia, son tutti modi con cui questa si presenti a turno, nel concedersi al gioco, ogni qualvolta il senso lo abbisogni.
Così perde la bussola lo scevro Uomo d'oltremondo, che si appresta all'atto dello sconvolgersi a danzare in una strada che ha compiuto un cerchio, di cui il perfetto s'avvista solo nel girare lungo e in tondo ad uno stesso luogo, senza mai chiedersi chi è che s'appresti realmente a muoversi, se il mondo, o se son me, l'immondo stesso.
Il calcolo, la misura, la distanza, s'affretta con estrema precisione: attendibilità, validità, "ossequità", "reverenzialità", "untuosità"; ecco che l'Uomo Immondo s'attiene a misurare, misurandone le misure, concedendosi misure d'urgenza per tali misurazioni, che di concreto, di valido, di attinente, si riducono a misurare solo la scelleratezza di un matto che provi a cogliere l'acqua di un oceano in una tazza per poterne conteggiare tutte le onde.
Il grande affollamento, su di cui questa "centellinazione" si scatena, produce, invero, sacrosante verità, parziali, marziane, intese solo per colui che d'illusione si racconta e che s'avvede nell'infausto gesto del poter sentirsi vero, dello sporgersi a sorte nel potersi riflettere ora equiparato a dio, quest'oggi, non di meno, così da risvegliarsi all'indomani di nuovo stanco, rappreso, disilluso, scosceso nell'animo, che protratto verso la giusta mole di verità si spande, colei che chiara, fulgida, splendente, s'incede sospesa dal ventre alla più plumbea estremità: la mente oggidì si sente come un peso imponente sul corpo celeste, che forte, fiero e pio della sbornia precedente, tutt'oggi s'avvede che qualcosa che non quadra.
E' la verità diffusa nelle verità che mistifica il sollazzo oltremodo incestuoso del volgersi a vanità, orchestrato dai propri piaceri più intimi (tra i più latenti), dagli immorali vizi solitari:
la grande somma non fa il totale; il grande caso, pur sistemato, non crea verità: la divide; il grande avvenimento è uno e uno soltanto, quando egli diviene molti, perde la causa prima per cui è stato operato, egli si riconosce in tanti, ma mai più si rivede in se stesso, perde il seme della consapevolezza, l'unico davvero di grande importanza per noi uomini di scienza.
Tutte le cose sono tante, ma in fondo sono solo una.
E' vero senza menzogna, è certo e verissimo tutto ciò che si sente in vetro con se stesso.
Se il vetro è offuscato bensì, ecco che la scienza si deprime, che il vero si disperde, ecco che l'ingegno si inceppa in una sorta di visione mistica, maturata dall'impeto lisergico da cui la pasta di cui s'è detto codesto Uomo impareggiabile, si sfalda in poche lusingherie.
L'Uomo d'oltremondo stia attento, si affondi in qualcosa di più duraturo, di più maturo, di più stabile e meno impeccabile, ché la propria visiera su cui s'è messo un figurino, ella lo inganna raccontandogli storie fiabesche di cui si possano accontentare solo le sue più recondite avvisaglie.
Le paure infondono cattive amicizie, spengono il fiato, concedono pochi lumi alla vista. La paura di quest'Abbietto è di perdersi e di mai ricomporsi, di non esser più burattinaio innamorato della propria immagine favolistica, di cederla e di scinderla in più parti che, nel marasma da lui creato dalla sua stessa vista monoculare, sarebbero impossibili da ritrovare e pertanto, in seguito, da ricomporre.
E' un'immagine di vanitas fissata nel tempo, nel modo e nel linguaggio, e che come epidemia s'è diffusa e di cui non si riesce più a trovare risoluzione tale che possa un poco lucidarne la lente.
In verità, di ciò che il ventre materno si circonda, non si discerne neanche una piccola parte; è come un fiume, che di invisibile ha solo il corpo, ma di cui è più che mai facile per l'uomo che si erige a piena conoscenza, riconoscerne in ogni istante il rapido rintocco; divenire è facile per questo sciogliersi ineffabile, proferire è sadico per Colui il quale s'inchioda al terreno stabile.
Le acque non sono mai realmente dome, riflesse in loro stesse. E se queste si fanno avanti, è bene che chi le venga a cercare lungo il loro percorso s'accerti di non esser da meno ogni qualvolta.
Chi rimane immobile a penzolare nei dogmi della propria pigrizia, scevri oltretutto qualunque onesta "moralità" intellettuale, ecco che non diviene, per lo più sviene in un torpore dal tepore grigiastro, stagna, come immerso nella bruma d'inverno quando questa si appiccica agli occhi ed affioca la vista.
Così, di fatto, l'immagine è semplice da ricalcare, soltanto che essa è già svanita, così come fanno le stelle quando, vanitose e dissolute, spariscono se ci si attarda a guardarle; esse sono già filate via, mentre noi ci affanniamo severi nel domandarci come si fa a starsene lassù e non fornirne mai riscontro.
Ci insegna, dunque, l'esperienza, che di lei, e di lei soltanto, è verità suprema, di cui tutte le altre fittizie regine del regno passato, s'inchinano ogni qualvolta questa faccia presa nel mostrarsi in piena luce.
Di lei c'è scienza e vera cura nel conservarsi d'ogni evento nostrano, così come del ricordo lontano allo stesso tempo, di cui questi Uomini Scienziati siffatti mai si vedono, ma che anzi, nella beffa, si spendono nel tempo per ricucirla di una qualità un po' più sbiadita.
Così si credono di esser dotti, quando invece si ricoprono solo di vezzi, nauseanti ed in sé corrotti.




giovedì 24 dicembre 2015

Delirio #8 - Tetrattide

I.      Le cose non vanno fatte bene, vanno fatte.

II.     Poiché non vi è alcun senso nelle cose, allora le cose vanno fatte.

III.    Lungo ogni cosa fatta ogni senso è ritrovato.

IV.    Se le cose fatte hanno un bene, allora è bene che siano fatte bene.

V.     Se le cose fatte non hanno un bene, allora è bene che siano fatte non bene.

VI.    Lungo ogni cosa fatta si esprime un bene.

VII.   Lungo ogni cosa fatta si esprime un non bene.

VIII . Il fare esprime.

IX.    Il fare per esprimere, non esprime.

X.     Fare, dunque, per non esprimere.

                                                                                                   Medicina
                    APREARDETENEBRENEFONTERMNEFIAPERFEBE
                SANFERENOPARENE
                      RAREFEDEFASENOLEALSARAPRE
                                     

venerdì 11 settembre 2015

In Principio era l'Indeterminabile

Dio è dove non si può vedere.
È così soltanto che lo si può trovare.
Con ciò si determina la sua esistenza.
Con ciò si indetermina la sua esistenza.

Credere in Dio è un gioco.
È un gioco che non permette di non esser più bambini.
Chiedere cura, protezione, amore,
chiudersi in fasce, chiudere le fenditure ad un mondo così intenso.
Credere in Dio è un gioco.
Poiché l'unica cosa che dà senno a questo luogo
non è nient'altro che la morte.

Credere nella morte non è un gioco.
La morte allaga ogni cosa e comanda incertezza,
e poiché da essa non vi è clemenza.
credere in Dio è il modo.

Credere in Dio è il modo.
È il modo per alludere alla salvezza, per poter credere con fermezza.
Chiedere moto, scopo, posizione,
è il modo per perdersi in mete ed orizzonti tutt'altro che inscindibili.
Credere in Dio è il modo.
Poiché l'unica cosa che da senno a questo luogo
non è nient'altro che il senso.

Il senso è il moto. Il senso è la posizione.
Dio abbraccia ogni moto.
Dio abbraccia ogni posizione.
Abbraccia idoli che non siano noi stessi,
dona sfarzo alla pretesa di rimanere disconnessi.
Dio si nasconde, Dio si annoda
Dio si estende lungo lo scorrere invisibile che determina ogni immagine di sè.

Ringrazio Carlo, Federico e Guglielmo per avermi portato qui.

mercoledì 9 settembre 2015

Delirio #7 - Me

Essere per riconoscersi.
Fare per essere riconosciuti.
Se persino amare è per sé stessi,
diviene chiaro il principio regolatore d'ogni cosa: Io.  

                                                                                           Medicina
                                                                               TEMOTENSINTIPAZENDI
                                                                                  SERVAVERIESEFERE
                                                                  FILOSOPERALSIGNIPOTERCROSACQUA

venerdì 29 maggio 2015

Il Dono

Perdersi tra queste mura
che mi trascinano nel tempo.
Perdersi tra queste strade
che disperdono la mia unicità.
È un sogno,
è un sogno dal cuore vivo,
che pulsa nel corpo di una realtà fatta di parole.
È un sogno in cui scorrono proiezioni lampanti
dei racconti del tempo che fu,
di storie in cui vi sono luoghi da sempre narrati,
luoghi che per giorni furono immaginati,
luoghi in cui vi era da narrare poi
sempre di qualche cosa,
o di qualche perduto ricordo.
Qui dove l'angolo fa la corte alla chiesa,
qui dove si odono gli echi dei medici
che si presero cura del tempo ammaliato,
risali le scale
e guarda,
adesso puoi apprendere come le emozioni
scorrano via attraverso i tuoi occhi.
L'acqua scorre in giù, segna il tempo che passa,
sulle rive lascia il tempo che resta
per concedersi ancora una volta
qualche ripiego al passato.
Vai ad immergerti in un idillio
la cui debolezza
è simbolo e specchio della più indescrivibile delicatezza.
Non c'è spazio per la notte,
si può al massimo tendere ad allargare il buio finché si può,
fin tanto che non si riesca più a vedere,
o a vedersi
neppure impigliati in una realtà tangibile al tocco.
Questa è la poesia,
questo è il dono di cui ti parlo
ogni qualvolta ti penso intensamente.
È il dono del giglio,
è il dono del cipresso,
è il dono di tutti i fiori, le rose azzurre,
e dei più nobili misteri che si aggirano lungo i sentieri più intricati,
che vagano lì da soli a raccontarsi, magnificati,
tra le strade di questa città.
Qui dove fu l'isola dei morti,
è il luogo per le campane che suonano al giusto rintocco,
è il luogo in cui il glicine troppo in fretta si mostra sospeso in fiore,
è il luogo in cui sempre aperte sono le finestre
nell'attesa che tornino gli avventurieri dei racconti trapassati.
È il luogo in cui si conoscono i cinghiali,
e le fortune che incedono dai loro proventi,
è il luogo in cui ti vedi nel rincorrerti in uno stesso posto,
senza mai vederti, allo stesso modo, in un gioco predisposto.
È il luogo in cui mi fu permesso di aprire gli occhi
e guardare al di là delle cose,
di immergermi con tutto me stesso, una volta,
e di concedermi un bagno in queste acque consumate,
in cui in vite precedenti ho già imbastito legami così intensi
da non poterne mai dimenticare il sentore invisibile, seppur lontano dagli occhi.
Questo è il più grande dono che mi hai concesso Fiorente Viola,
è questo che ho colto, nelle mie notti, dal Santo al Pellegrino:
tu sei l'idea,
tu sei l'ideale, a cui appendo le mie malinconie,
il tuo dono è nello spirito,
in esso, la via che ci abbraccia in tutte le cose
e che mai ci disperde,
neppure quando ne vengono arginati i più arditi risvolti.
E quando il sogno svanisce,
ecco che l'occhio si apre su una dea senza coscienza,
ecco che il tempo si delinea quale sublime occasione
in cui concedersi non è che un'empia decisione;
qui dove il sogno s'infrange
il cuore si frantuma nel dirsi impotente.
Dal ponte si entra,
dal ponte, poi, si esce.
Seppur tutt'oggi te lo chiedessi,
è di un dono povero al tatto
quello di cui si parla,
ma è un dono così intenso e concreto nella realtà che ivi si narra,
che colui della quale vi s'intinge ciò nonostante
nella stessa porta il nome,
l'effige impalpabile di sognante.


Hic lapis exilis extat, pretio quoque vilis, spernitur a stultis, amatur plus ab edoctis.